lunedì 27 febbraio 2017

La La L'Ehm...


In 89 anni della storia degli Academy Awards, non erano mai accaduti degli episodi imbarazzanti che ricordassero un po' quelli dell'edizione di Sanremo 2011 con Gianni Morandi, Belen Rodriguez ed Elisabetta Canalis.

Per i pochi che non avessero seguito la diretta o le registrazioni della Notte Degli Oscar 2017, è stata fatta una gaffe che rimarrà indimenticabile: nel gran finale della serata, si è scatenata una grande standing ovation per la "vittoria" di La La Land come Miglior Film, ma qualcosa ha interrotto l'entusiasmo dello staff del film. Warren Beatty e Faye Dunaway, due icone della New Hollywood, protagoniste di "Gangster Story" di Arthur Penn (1967), hanno annunciato il film sbagliato, perché avevano letto il film della busta precedente!

Non avendolo visto in diretta, perché è dura stare svegli fino alle 6 di mattina, ho rivisto oggi la registrazione da Sky Cinema e devo dire che, se fossi stato nei panni di Warren Beatty, personalmente, mi sarei dileguato con un mantello invisibile alla Harry Potter.

Pensavo ad una vera e propria valanga di "Buuu" del pubblico ed invece, gli ospiti nel Dolby Theatre sono rimasti composti, nonostante lo shock. Di certo, il produttore di La La Land non l'ha presa bene in quel momento, tanto da strattonare il foglietto giusto dalle mani di Warren Beatty.

Ma questa non è l'unica gaffe di questa edizione: NerdMovieProductions, in un suo articolo, ha pubblicato l'altro errore commesso durante il segmento "In Memoriam", nel quale si vedono i commoventi e tristi momenti delle apparizioni di varie icone cinematografiche, tra cui spiccano  John Hurt e Carrie Fisher; a un certo punto appare la costumista Janet Patterson, pluri-nominata agli Oscar negli Anni '90 e morta nell'autunno scorso... però, si scopre solo dopo la cerimonia che l'immagine presentata nel Memoriale è invece della produttrice dei film di cui Janet Patterson curava i costumi, tale Jan Chapman, la quale è subito intervenuta appena ha saputo di questa figura di cacca.

Sinceramente, trovo perdonabile l'errore di Warren Beatty a confronto dell'errore d'immagine, che ha suscitato uno strano brusio nel pubblico durante il Memoriale stesso.


A.D.

giovedì 23 febbraio 2017

Obiezione di coscienza e diritto all'aborto

L’assunzione all’ospedale San Camillo di Roma di due ginecologi, che devono garantire l’applicazione della legge 194/1978 sull’interruzione volontaria di gravidanza, pena il licenziamento o la mobilità, ha diviso nuovamente l’opinione pubblica su questo diritto controverso.

La legge 194/1978, che potete consultare qui, parla chiaro: all’articolo 9 dice che “ogni membro del personale sanitario ed esercente le attività ausiliarie non è tenuto a prendere parte (…) agli interventi per l’interruzione di gravidanza quando sollevi obiezione di coscienza, con preventiva dichiarazione.” Secondo quanto dice la legge, quindi, l’obiezione di coscienza è un diritto di tutti coloro che potrebbero contribuire all’aborto. Naturalmente, se l’intervento è urgente perché la gravidanza è pericolosa per la vita della gestante, non c’è obiezione di coscienza che tenga.

Il presidente della Regione Lazio Nicola Zingaretti, che ha indetto il concorso nel novembre 2015, ha dichiarato che l’assunzione “è una sperimentazione per tutelare una legge che altrimenti verrebbe disattesa”. I dati del Ministero della Salute, risalenti all’aprile del 2016, sembrano dargli ragione: negli ultimi dieci anni il numero degli obiettori di coscienza è salito del 12%; in generale la media nazionale è di circa il 70%, con punte di oltre il 90% (il massimo viene raggiunto in Molise, con il 93,3% di obiettori di coscienza); solo nel Lazio l’80,7% dei ginecologi pratica l’obiezione di coscienza. Sono percentuali spropositate, che indicano una vera e propria emergenza e un enorme conflitto di interessi: qui si parla di un diritto di una persona (il ginecologo o l’ostetrico) che lede il diritto di un’altra persona (la donna che vorrebbe o dovrebbe abortire).Questo problema così annoso potrebbe avere diverse soluzioni.

Le percentuali dell'obiezione di coscienza in Italia, regione per regione


A febbraio del 2016 i deputati di Alternativa libera-Possibile avevano presentato in Parlamento una proposta di modifica della 194, in cui si chiedeva “un miglior bilanciamento tra il legittimo esercizio dell’obiezione di coscienza e l’altrettanto legittimo ricorso all’interruzione volontaria della gravidanza”, si garantiva una percentuale di almeno il 50% di personale sanitario e ausiliario di non obiettori e si istituiva un numero di telefono gratuito che avrebbe dovuto informare i cittadini sulle modalità di applicazione della legge.

Ben più radicale è la posizione del senatore Maurizio Romani, ex del Movimento 5 Stelle ora appartenente al gruppo misto con Italia dei valori, che aveva firmato, a luglio del 2013, una proposta di modifica della legge sull’aborto, richiedendo che la percentuale di personale medico non obiettore fosse del 70%, in netta controtendenza a quanto accade oggi.

Per Giuditta Pini, deputata del Partito Democratico, la certezza dell’applicazione della norma sull’interruzione volontaria di gravidanza passa dalla direzione: chi volesse essere direttore di una struttura sanitaria o di un dipartimento oppure presidente di un policlinico dovrebbe essere non obiettore da almeno 24 mesi.

Frida Kahlo, "Henry Ford Hospital o Il letto volante" (1932)

Personalmente, sono favorevole alla legge 194: è stata promulgata per combattere il problema degli aborti clandestini e per meglio tutelare le future madri; in più punti del testo della norma si può leggere come la madre non debba prendere con leggerezza l’atto, anzi viene invitata a pensarci una settimana. Il servizio è reso praticamente obbligatorio soltanto qualora la madre rischi dal punto di vista psichico o fisico. Tuttavia, capisco la perplessità di alcuni cattolici di fronte alla decisione di Zingaretti di assumere a tempo indeterminato due ginecologi che hanno l’obbligo di non sollevare mai obiezione di coscienza, anche se, tenendo conto delle statistiche sulla presenza degli obiettori di coscienza tra il personale medico e ausiliario italiano, potrebbe essere una soluzione anche questa.

Ritengo che la proposta di Alternativa libera-Possibile sia la più opportuna tra quelle esaminate in questo post, in quanto creerebbe un equilibrio tra gli obiettori e i non obiettori nelle strutture sanitarie e nelle case di cura. Del resto, se non ci fossero così tanti obiettori di coscienza, fatto che ha come conseguenza l’impossibilità per alcune donne di poter abortire se non spostandosi in zone dove vi sia almeno un non obiettore pronto a garantire loro questo diritto, nessuno si porrebbe il problema, se non dal punto di vista etico. Ma questa è un altro discorso.

Neifile

lunedì 20 febbraio 2017

Piccola riflessione sugli smart toys

C’era una volta, in un piccolo paesino, una bambina che ricevette in dono Pamela, una bambola che parlava, cantava un jingle e camminava. Sua zia credeva di renderla felice con questo giocattolo tecnologico (erano gli Anni Ottanta); invece la bimba, appena vide la bambola in azione, cominciò a piangere per la paura.

Anni e anni dopo, l’evoluzione del giocattolo, come di altri oggetti di uso quotidiano, ha portato alla nascita delle smart things. Ma, se uno smartphone dotato di GPS e di app di ogni genere non ci preoccupa più di tanto, alcuni trovano molto pericolosi gli smart toys, come Cayla della Genesis Toys, da poco ritirata dagli scaffali tedeschi, perché considerata possibile strumento di spionaggio dei bambini. Cayla è una simpatica bambola bionda che, come scritto nella confezione, può essere personalizzata, capirti e chiacchierare, rispondere alle domande, raccontare storie e giocare, quasi come una bambina vera molto vispa. Tra le varie cose, il microfono di cui è dotata è collegabile tramite Bluetooth a ogni smartphone presente nel raggio di 10 metri dal giocattolo. Questo, se può essere considerato una manna dal cielo dai genitori apprensivi che non vogliono invadere fisicamente lo spazio privato dei figli, ha messo in allarme le autorità federali tedesche, che hanno pensato quanto potesse essere facile hackerare la bambola e raccogliere informazioni, anche molto personali, dai bambini che la usano: spiarli, insomma.

La bambola Cayla


Ovviamente possiamo fare mille altri esempi. Persino le macchinine telecomandate sono collegate con la rete, per poter compiere dei percorsi programmati via web. Il classico orsacchiotto con la videocamera è ormai superato.

Il fatto che questi smart toys si colleghino ad Internet, e dunque a chissà quale server che può sfruttare le informazioni captate a proprio vantaggio, rende vulnerabili i bambini dal punto di vista della privacy. E allora che si fa? Ci teniamo il panico? Ci facciamo inglobare? Siamo arrivati alla situazione descritta in “1984” di Orwell, in cui tutti veniamo controllati dal Grande Fratello? Non penso che molti si siano posti lo stesso problema col forno che si accende o si spegne tramite app, per citare un esempio banale, o con il prototipo di robot creato per servire un anziano malato.

Certo, i bambini sono più sensibili degli adulti, ma pensiamoci bene: se l’uomo ha creato queste “diavolerie”, l’uomo potrà tranquillamente controllarle. Personalmente penso che, per quanto questi giochi possano essere hackerati come un qualunque dispositivo, bisogna fare i conti con la tecnologia e cercare di starle al passo, anziché spaventarci. Ve lo dice un’ex bambina impaurita, che, a furia di stare a contatto con le smart things, è diventata ottimista.

Sarà l’abitudine, sarà che confido nella superiorità umana sulle macchine, sarà che il cervello umano è troppo imprevedibile per essere replicato davvero, fatto sta che sapere di essere tutelata dalla legge qualora venissi hackerata mi tranquillizza. Anche se, lo confesso, non darei mai un giocattolo smart o un tablet a un bambino che non sappia divertirsi anche con quelli normali, per non abituarlo male. Credo che ci voglia equilibrio, come per tutto. Solo se lo smart toy diventasse un’ossessione, dovremmo seriamente preoccuparci.

Neifile

sabato 18 febbraio 2017

La stampa (non) è uguale per tutti

Mentre il clima sulle recenti vicende della sindaca capitolina Virginia Raggi si incendia, dagli spiragli delle appendici dei quotidiani nazionali emergono le vicende di un certo Tiziano Renzi, indagato per il reato di traffico di influenze illecite per l'appalto della Consip. Ovviamente quel cognome ha un peso importante, date le ultime vicissitudini politiche italiane. Perché Tiziano Renzi, di cui ho appena fatto menzione, altri non è che il padre dell'ex primo ministro Matteo, attualmente segretario del Partito Democratico.

Ma perché ho collegato il suo nome a quello di Virginia Raggi all'inizio di questa riflessione? E' di poche ore fa l'articolo postato da Grillo sul suo blog (che potete leggere qui), che lamenta una disparità di trattamento della notizia, insinuando ragioni politiche da parte delle principali testate giornalistiche, quali la Repubblica, La Stampa e Corriere della sera, rispetto all'attenzione mostrata in questi giorni sui vari episodi del caso Raggi. La stessa cosa non è stata lamentata solo da Grillo, che anzi si fa quasi portavoce di un pensiero diffuso tra i suoi affiliati. Un pensiero molto, molto diffuso, Tanto che qualcuno, sui gruppi Facebook di discussione del Movimento 5 Stelle, ci offre addirittura un minutaggio esatto dello spazio dedicato dai telegiornali di punta nostrani, all'una e all'altra notizia: "2 minuti per il padre di Renzi, e 12 per la Raggi".



Tuttavia, è abbastanza curioso come questa situazione sia solo una fallace strumentalizzazione politica. Lungi dal compiere giudizi che spettano solo ai tribunali, mi soffermo solo a evidenziare l'assurdo paradosso tale per cui le vicende di un semplice imprenditore indagato dovrebbero addirittura surclassare e sviare dall'amministrazione della città più importante del nostro Paese: Roma. Specie in un momento come questo, in cui si infittisce il caso delle polizze e, sebbene ripeto che non voglio compiere nessun processo anticipato, sembra anche palese la disparità di gravità dei fatti per cui l'uno e l'altra sono indagati.

Mi viene in mente una riflessione. Tutto il nostro ordinamento permea la disciplina penale su un principio di colpevolezza, vale a dire sulla personalità della responsabilità penale; nessuno può cioè essere punito per un fatto commesso da altri. In quale momento il fatto che con un soggetto ci sia un rapporto di parentela con un'assai invisa personalità politica, quale l'ex premier, è diventato un parametro di valutazione della condotta di un indagato? E aggiungo: quando la condotta giuridica di qualcun altro, sia esso un parente o una persona fidata, finisce con l'influire sulla posizione di un personaggio politico che a quei fatti è assolutamente estraneo? Siamo tornati a quella vecchia mentalità biblica per cui le colpe dei padri ricadono sui figli? E se è così, fino a che generazione devono scontarsi le pene e le colpe, per Grillo e i suoi sodali?

E' curioso, infine, che la stampa abbia citato Tiziano Renzi solo come "il padre di Renzi". Senza indicare un titolo, un ufficio, un ruolo professionale che giustificasse il suo essere  sotto l'occhio del ciclone. Un mero titolo polemico?

Il vecchio detto "due pesi e due misure" è vero fino a un certo punto. Specie se scavando a fondo nella sostanza dei fatti ci ritroviamo davanti a due circostanze talmente diverse che una disparità di attenzione da parte di giornali e telegiornali è assolutamente inevitabile.

- Superman

venerdì 17 febbraio 2017

Fragilità: una debolezza quasi imperdonabile

La storia del ragazzo di Lavagna è solo uno dei tanti casi di suicidio che fanno notizia. Possiamo citare Tiziana Cantone, vittima di revenge porn, o gli adolescenti che si tolgono la vita per aver subito atti di bullismo e cyberbullismo, o ancora gli uomini o le donne che commettono un omicidio-suicidio, di solito a danno dei propri cari. La fragilità di queste persone fa scalpore solo quando ormai è troppo tardi.

Certo, non tutti arrivano al gesto estremo. Pensiamo a quelli che mentono dicendo di studiare all’università, o di fare un lavoro che non fanno, o di vivere in un altro luogo rispetto al loro:  a furia di mentire confondono loro stessi la realtà con la finzione, finendo quasi per autoconvincersi che la finzione sia la realtà.


Ma è davvero così difficile vivere questa vita? Si fa un gran parlare di menefreghismo, di non voler sapere, di non voler vedere. Un amico mi ha raccontato che, bazzicando sui siti porno, ha trovato un video di una ragazza, probabilmente caricato dal suo ex, che si era permesso di scrivere il nome, il cognome e la città della ragazza. Un caso da manuale di revenge porn. Quando gli ho suggerito di mandarle un messaggio, magari con un account fake in modo da risultare un minimo anonimo, mi ha risposto: “A volte è meglio non sapere. Che ne sai come reagirebbe se lo sapesse? Potrebbe uccidersi. Io non la voglio sulla coscienza”.

Tutti noi ammettiamo di vivere in un mondo di squali che ci giudicano e ci sbranano. Eppure parliamo tanto del valore dell’amicizia, dell’amore, dello stare insieme… l’uomo è un animale sociale, in fondo. Sembra quasi un paradosso, no?

Forse la risposta sta nella nostra continua ricerca della perfezione, intesa come voglia di essere come ci vogliono gli altri per poter essere accettati. Da qui le bugie e le insicurezze, che diamo anche noi. Chi è che non ha mai guardato male un ragazzo “troppo tatuato” o ha commentato negativamente una ragazza che ha cercato spesso l’amore, definendola “promiscua”? O ancora, chi non ha giudicato la ragazza che non cura il proprio aspetto dicendo che è “sciatta” o invece ha deriso il ragazzo troppo attento al modo di apparire, sostenendo che è “gay”? Non riusciamo a non etichettare tutto e tutti, nonostante noi siamo i primi a non volerlo essere. È un circolo vizioso. Ma alcuni sono più inclini di altri a non sopportare i giudizi, e si disperano.


Essere fragili è un difetto quasi imperdonabile in un mondo che ci vuole forti e sempre pronti a tutto quello che ci chiede la società. Non è proprio vero quello che canta Fiorella Mannoia in “Che sia benedetta”: “per quanto sembri incoerente e testarda (la vita) se cadi ti aspetta”. La vita non aspetta proprio nessuno, scorre inesorabilmente e ti sbatte in faccia le difficoltà, che tu sappia affrontarle oppure no. E che succede se non riusciamo a riprenderci da una perdita o da un fallimento? Se ci fermiamo a pensare che abbiamo sbagliato percorso? Perdiamo tempo, la vita ci sfugge.

A volte sembra che tutti gli altri stiano bene e siano felici, realizzati. In realtà sono semplicemente più forti e sanno nascondere il proprio dolore. Chi vive la vita appieno non si ferma o si accontenta. Che poi non è l’equivalente di essere felici, se ci pensate bene. Semplicemente si smette di illudersi o di lottare per i propri sogni, preferendo una vita più comoda e sicura e raggiungendo un minimo di serenità.

Anche quando abbiamo bisogno di aiuto, non sempre riusciamo a trovare l’aiuto giusto. Basti pensare di nuovo al caso del ragazzo di Lavagna: sua madre lo aveva denunciato alla Guardia di Finanza perché disperata che suo figlio si stesse perdendo dietro le droghe, senza rendersi conto di aver messo il sedicenne in una situazione che lo avrebbe portato a ritrovarsi il dito di tutti puntato contro, causandogli certamente del panico e la voglia di scappare da questa situazione una volta per tutte. Un altro esempio potrebbe essere dato da quei genitori e da quei docenti che dovrebbero difendere le vittime di bullismo e cyberbullismo e che invece pensano: “Se non si sa difendere non è colpa mia”. A questo punto restano solo gli esperti, psicologi, psicoterapeuti e psichiatri: loro vanno a tentativi, perché non esiste una soluzione universale che risolva i problemi delle persone, ogni caso è a sé, e prima di trovare la soluzione che fa per noi potrebbero passare degli anni.


La fragilità è nella nostra essenza, è il nostro bisogno di essere al sicuro, è la nostra voglia di farcela e di sentirci, se non importanti, utili quando ci sembra troppo difficile raggiungere questo obiettivo. È il nostro modo di essere egoisti e il campanello d’allarme quando qualcosa non va. Anche se molti non la perdonano e altri non pensano possa appartenere anche agli altri e non solo a loro, anche se proviamo a nasconderla e a zittirla, non andrà mai via. Possiamo solo cercare di non farle prendere il sopravvento sulla nostra vita e di trovare un equilibrio tra gli alti e i bassi della nostra esistenza.

Neifile

lunedì 13 febbraio 2017

A proposito di... Nintendo Switch

Inizio questo (agognato) articolo della mia rubrica di riflessioni videoludiche con una confessione: sono un nintendaro.

Questo mio esordio in stile alcolisti anonimi lo trovo essenziale per introdurre le mie impressioni, le mie ragioni e tutta l'hype che intendo comunicarvi in vista della prossima uscita di Nintendo Switch prevista per il 3 Marzo 2017, una console con la quale la grande N, a mio avviso, dimostrerà ulteriormente il proprio carisma.


Inizio, in realtà, dalle perplessità e da un certo senso di disappunto nel vedere la Wii U a bocca asciutta per quanto riguarda la serie di "The Legend of Zelda", o meglio, di non vedere un capitolo di questa fondamentale serie videoludica per Nintendo esclusivamente su Wii U. Infatti, tralasciando il port di "Wind Waker" e la versione HD di "Twilight Princess", due titoli zeldiani nati su Nintendo GameCube e che in questa ottava generazione di console hanno cercato di dare il contentino agli utenti di Wii U, dal momento che probabilmente molt possessori di questa console, me compreso, avevano come priorità quella di usarla per giocare a un nuovo Zelda, i nintendari di tutto il mondo hanno infine scoperto che il prossimo "The Legend of Zelda - Breath of the Wild" sarà rilasciato sia su Wii U che su Switch, e la doppia uscita di questo titolo mi ha urtato proprio per questa mancanza di esclusività di questo titolo su Wii U. Ma vabbè, quando potrò giocarlo probabilmente passerà tutto, e cavalcherò Epona nell'open world di Hyrule mentre Satoru Iwata ci guarderà giocare dal cielo.


La mia attenzione però è caduta su un mini-gioco presentato da Nintendo che farà parte del parco videoludico della Switch: una sfida per 2 giocatori, giocabile all'interno di un party game intitolato "1-2-Switch", che altro non è che un simulatore di duello con le pistole: mentre i due duellanti si guardano negli occhi armati di controller, la console emetterà un segnale sonoro che dirà ai due pistoleri quando sparare.


A diversi videogiocatori, più bisognosi di emozioni forti, sempre affamati di FPS, questo modo di intrattenersi può sembrare infantile, ma lasciatemi dire che è proprio questa la forza di Nintendo: riesce sempre a farti tornare bambino!

Io non sono un fan sfegatato dei party game, anzi, Wii Party U, per quanto abbia degli spunti carini, non mi ha entusiasmato più di tanto, ma io in questo mini-gioco, anche ora che Iwata ci ha lasciato, ho sentito nuovamente, quasi con prepotenza, il riaffermarsi della forse sottovalutata Nintendo Difference, quella capacità cioè di saper divertire l'utente in maniera completamente inaspettata. Nel senso che, nel vedere presentato il mini gioco sopra descritto ho pensato:"Ma perché non ci ha mai pensato nessuno?".

È dunque arrivato, con ogni probabilità, il riscatto per una Nintendo che, in Italia e non solo, era stata messa da parte dai videogiocatori, maggiormente focalizzati su XBox One e soprattutto PS4, senza dimenticare l'importanza sempre maggiore dei giochi per smartphone, del PC gaming e della realtà virtuale.

Negli ultimi anni, infatti, tra gli appassionati di videogiochi e i gamer di YouTube, si è preferito emarginare il ruolo di Nintendo nell'industria videoludica per quanto riguarda le console domestiche, e questo pare sia da attribuirsi all'insuccesso riscontrato dal controller della Wii U, che a molti non è piaciuto: una specie di tablet munito di 2 levette analogiche, un touch screen con tanto di pennetta, l'immancabile D-Pad (la croce direzionale tipica delle console Nintendo da oltre 30 anni) e un lettore NFC rimasto inutilizzato fino all'avvento, forse tardivo, degli amiibo.


Questo controller ha evidentemente deluso le aspettative del nintendari, abituati a un'esperienza di gioco entusiasmante propria del WiiMote, il controller della Wii che ha dato inizio all'epoca del motion gaming per quanto riguarda le console casalinghe, una modalità di gioco forse tradita proprio dal pad di Wii U che di motion gaming non ha nulla.


Purtroppo, non ho potuto esplorare molto a fondo il repertorio videoludico di Wii U. Devo dire però che le poche esperienze fatte con titoli come NintendoLand e ZombiU sono state più che soddisfacenti. Se nei vari giochi di NintendoLand, un party game meno sovraffollato di proposte rispetto a Wii Party U e per questo a mio parere più godibile, ho trovato delle esperienze originali e divertenti, ZombiU è stato una vera, maledettissima droga. In sintesi, penso che chi abbia snobbato Wii U non sappia cosa si sia perso.

Ritengo insomma che le esperienze fatte con il pad Nintendo siano state decisamente divertenti, soprattutto per i non giocatori e per i casual gamer. È questa infatti la fetta di pubblico a cui questo colosso videoludico si rivolge, soprattutto da un decennio a questa parte dopo l'avvento della Wii, entrando nei cuori di chi non aveva mai toccato un videogioco e diventando però la pietra dello scandalo per i videogiocatori più agguerriti, i quali forse hanno trovato i titoli rilasciati da Nintendo tanto appetibili per il grande pubblico quanto insoddisfacenti per i videogiocatori di lunga data. In effetti, a parte l'exploit successivo al rilascio di Pokémon GO, Nintendo, specie dopo il rilascio della Wii U, non riusciva più a far parlare molto di sé, sommersa dal successo delle altre piattaforme da gaming.

Cara Nintendo, credo che tu stia spingendo troppo. Credo che faresti meglio a concentrarti maggiormente su chi vuole videogiocare piuttosto che su chi non ha mai toccato un controller.


La Nintendo Switch, con i suoi Joy-Con e il suo nuovo tablet a cui è possibile collegarli per proseguire il gioco fuori casa, fa proprie le possibilità di motion gaming della Wii e il touchpad di Wii U. I primi feedback dei giocatori sembrano positive. Sembra infatti che questa nuova console in Giappone sia già sold out, e sembra che anche l'occidente si stia riavvicinando a Nintendo.

Personalmente, se mi chiedessero se comprerò Nintendo Switch la mia risposta sarà più sì che no. Magari non la prenderò al day one, ma senza dubbio mi interessa.
Vedi però, cara Nintendo, di non deludermi e di fare del tuo meglio non solo per emozionare me ma per riprendere quei giocatori che, in Occidente, ti hanno mollato dopo la Wii U. Tu lo sai bene, non si può giocare sempre da soli.

see ya
rising dark sun

lunedì 6 febbraio 2017

#PrecipitHype - Power Rangers e il retaggio del Cavaliere Oscuro

Ho voluto aprire questo articolo come se fosse una sorta di nuova rubrica, ma francamente voglio augurarmi che non riaccada che un progetto, in questo caso cinematografico come il reboot dei Power Rangers, che uscirà il 24 Marzo 2017 negli USA e il 6 Aprile in Italia, susciti in me una irrefrenabile scarica di hype per più di un anno per poi far precipitare inesorabilmente tutte le mie aspettative, tutta l'hype accumulata durante i mesi in cui non vedevo l'ora che questo film uscisse.


Nel caso non si fosse capito, sono un appassionato di questo franchise che esiste da quasi 25 anni nelle nostre TV. La mia generazione, negli anni 90 durante la ricreazione delle elementari, in quegli anni, quando non giocava a Sailor Moon, giocava ai Power Rangers, imitando le loro gesta e soprattutto le trasformazioni dei 5 Rangers che invocavano il potere dei dinosauri.

Dal canto mio, a quei tempi, non ero molto sincronizzato con le tendenze in voga tra i miei coetanei, ma mi è capitato in varie occasioni di imbattermi in questo brand nelle sue edizioni successive.
Per chi non lo sapesse, dal 1993 ad oggi sono state prodotte ben 22 stagioni dei Power Rangers, a cui vanno aggiunti, oltre al reboot di prossima uscita, due film e una miniserie, senza parlare del fan film uscito nel 2015 su Vimeo; un fenomeno dunque difficile da conoscere integralmente ma che ho potuto spiluccare qua e là abbastanza da affezionarmici.


Credo corresse ancora l'anno 2015 quando sono venuto a sapere della produzione del reboot che uscirà il prossimo Marzo e che è stato inizialmente annunciato a Marzo del 2014. E in questi giorni iniziano ad essere rilasciati i primi teaser trailer.
Diversi mesi fa, ecco comparire su Facebook la prima immagine che vede i cinque eroi indossare le loro tute e...


Ecco che la hype inizia a scemare inesorabilmente.
Quello che il film del '95 non aveva osato fare neanche lontanamente, lo sta facendo questo reboot. Hanno dato delle nuove tute ai Power Rangers!
E che razza di tute perlopiù! Sono i Power Rangers, non gli scagnozzi di Batman! Da quando in qua i Rangers sono dark? Le coloratissime uniformi attillate sono state sostituite da delle uniformi così scure da rendere difficile capire di che colore sono. 

Sinceramente, non voglio dilungarmi più di tanto su questo film, dal momento che non è ancora uscito.
Ho voluto scrivere questa mia prima impressione a seguito di una discussione avuta con Matioski, uno YouTuber che sul suo canale pubblica video reaction in cui egli visiona video di vario genere esprimendo le sue sensazioni su ciò che vede prima, durante e dopo la visione. 

La discussione che ho intrattenuto con Matioski verteva intorno ad alcuni film fallimentari, come DragonBall Evolution, a cui egli paragonava questo reboot dei Power Rangers. È stato lì che mi sono sentito di rincarare la dose.

È come se il cinema americano, dopo il successo della trilogia del Cavaliere Oscuro di Nolan, avesse deciso che le trasposizioni cinematografiche dei prodotti rivolti ai giovani, come i fumetti e in questo caso le serie tv per bambini, debbano avere sempre una tinta cupa, oscura, trasformando personaggi nati con l'intento di divertire le menti spensierate dei ragazzi in maschere dalle tinte scure, senza più colore né voglia di sorridere.

Non è successa una cosa molto simile con Batman V Superman? Laddove Superman, nella sua versione fumettistica, rappresenta un personaggio ottimista, solare, ben lontano dal pessimismo e dal mood notturno di Batman, ecco che il suddetto film impone un Superman "batmanizzato", con tinte addirittura nichilistiche, rifilando agli spettatori un personaggio, a mio avviso, vuoto e senza spessore, vincolato agli stereotipi del cinema di Hollywood.


È esattamente questo che, a vedere questi primi assaggi del reboot dei Power Rangers, sarà probabilmente proposto al cinema a chi, come me, guarderà questi cinque eroi sul grande schermo: il prodotto di un cinema che, a partire dal Batman di Nolan, dice ai bambini di ieri che sono.cresciuti e.che ora la vita è dura anche per i loro beniamini dei fumetti o delle loro serie TV preferite dell'infanzia.

Una tendenza, questa, che se poteva andare bene in Batman Begins, in quanto era in sintonia con quel particolare personaggio, ha lasciato perplesso il pubblico di Batman V Superman e, forse, in futuro, anche quello dei Power Rangers, che avrà tutto il diritto di sentirsi preso in giro qualora il film non dovesse soddisfarne le aspettative.

Cara Hollywood, il cinema serve a dispensare emozioni, non solo a dilapidare capitali per la realizzazione di effetti speciali d'avanguardia, e soprattutto non solo a riempire le vostre tasche con i soldi del botteghino. Non senza merito, almeno.
Così. Giusto per ricordarlo.

see ya
rising dark sun